Montedoro terra di briganti.

In questa pagina vogliamo raccontare alcune storie di briganti che hanno segnato, tra la metà dell 1800 e i primi anni del 1900, la vita del nostro piccolo paesino e dei suoi abitanti.

I Maraniddotti o Maranidduatti.
I Maranidduatti, così venivano chiamati gli appartenetti alla famiglia dei Bufalino Marinella (Maranedda), affiancata da elementi turbolenti che terrorizzavano il paesello. Correvano in quel periodo strane voci, si diceva che i maranidduatti volevano spogliare di tutto l'oro il piccolo paesello, anche gli orecchini che usavano portare uomini e donne.
Corse anche un'altra voce infame in quel periodo, ovvero che i tanto odiati Bufalino avrebbero rapito tutte le donne giovani e belle di Montedoro per farne un' harem per loro uso. E si facevano addirittura i nomi delle donne iscritte nella lista. Tale diceria fu la goccia che fece traboccare il vaso.
I capi della Guardia Civica armarono i propri uomini, e nella notte del 24 Giugno 1860 riuscirono a sorprendere una riunione dei Bufalino, ed attorniata la casa arrestarono sette dei nove partecipanti alla riunione, mentre due riuscirono a scappare da un lucernaio. L'indomani gli arrestati furono portati al carcere di Caltanissetta. I due fuggiaschi si nascosero a Casteltermini, dove furono riconosciuti e denunciati da un montedororese.
Arrivata a Montedoro la notizia dell'arresto, la Giunta mandò un messo a Casteltermini per avere in consegna i prigionieri. la mattina del 5 Luglio 1860 la Guardia Civica montedorese, partì alla volta di Casteltermini per avere in consegna i due malcapitati. Superato Bompensiere, avvenne l'incontro tra quelli di Montedoro e di Casteltermini.
I due prigionieri furono consegnati ben legati. Gli animi erano caldi, si voleva spargere sangue ad ogni costo. Arrivati alla sommità del Cozzo delle Dise, a meno di due chilometri da Montedoro, si fermarono tutti; vociando, non volevano che entrassero vivi a Montedoro coloro che volevano spogliarne gli abitanti e violentarne le donne. Nella confusione, i più avidi di sangue, sciolsero i legami dei due prigionieri, spingendoli ad andarsene per colpirli isolatamente.
Liborio Bufalino vistosi sciolto ebbe paura per la sua vita e si getto ai piedi di tale Calogero Tulumello implorando pietà e misericordia. Crastenzo Militello, (campiere del Principe Pignatelli) avvicinatosi con una pistola in mano gli disse "nun t'ammazzu!... ma un signali di sangu ti le lassari pi ricordo!..." e fece partire un colpo che segnò Liborio di striscio alla testa, portandogli via il berretto. Intanto l'altro prigioniero, Gaetano Bufalino tentava la fuga tra la confusione, scappando verso il burrone sottostante. Già stava per voltare la china per calarsi nel burrone, quando Mario Campanella detto "Sacristanedda", disse "Santo Diantani!... Veru ava fujri?!... si concentrò prese la mira e fece fuoco, il fuggiasco fece allora un gran balzo e dopo due passi cadde a terra morto. La popolazione presente, ancora non contenta dello spargimento di sangue corse verso il Bufalino per massacrarlo, ma vedendolo morto, rimasero sconcertati; solo mastro Gaetano Licata, chinatosi sul morto, gli scaricò alla testa l'ultima pistolettata dalla rabbia.
Liborio Bufalino, che aveva assistito all'uccisone del fratello, venne condotto in paese tenuto per braccio da Calogero Tulumello mentre implorava perdono. Tutto il popolo corse a vedere. Il prigioniero fu condotto in cella e guardato a vista, per paura che qualcuno lo uccidesse, poi fu mandato a Caltanissetta a raggiungere gli altri compagni. Dopodichè vennero rilasciati aggravati da una ammonizione. Il cadavere di Gaetano Bufalino, fu sepolto nel luogo dove cadde e i passanti ammucchiarono sulla sua tomba un cumulo di sassi, com'era uso in Sicilia. Quel posto è a tutt'oggi chiamato: "Cozzo di Maranedda".
(tratto da: Memorie e Tradizioni di Montedoro Vol.1: di Giovanni Petix; Ed. Amm. Comunale 1984).

Il brigantaggio di Anzalone e Salvo
Andrea Salvo, inteso "di lùagliu", nacque il 12 Settembre 1854. Gaetano Anzalone, inteso "Carrabbuni", nacque l'1 Dicembre 1851. Entrambi facevano i braccianti, divenuti amici per affinità di idee, iniziarono con piccole ruberie che valsero ad affiliarli alla mafia locale. Commesso il furto di un negoziante d'olio e ammazzato Giuseppe Capitano per causa di interessi, si diedero alla macchia ed in breve furono visti armati a cavallo di giumente e vestiti con abiti di panno, taglieggiare feudatari e borghesi danarosi. In poco tempo si guadagnarono così una triste fama.
Delle loro imprese si parlerà soltato di ciò che riguarda il sequestro del montedorese Onofrio Caico. I due briganti sapevano che il Caico era solito farsi una passeggiata lungo lo stradale per Serradifalco. Fu proprio su quella strada che i due banditi, all'altezza della Madonna delle Grazie, gli tesero un'imboscata, la sera del 3 Luglio 1874, sorprendendolo in compagnia dei preti Don Gaetano Calamera e Padre Giambattista Alfieri.
I briganti puntando contro i tre i loro schioppi, gli imposero di marciare davanti a loro lungo la vecchia strada che conduceva verso Gibellini. Il Caico e il Calamera obbedirono senza opporsi, ma l'Alfieri preso dal panico tentò la fuga verso il paese, senza che i due banditi cercassero di fermarlo, superate le "grottazze", i due decisero di lasciare libero anche l'altro prete, dicendogli di tornarsene in paese e scusandosi per il disturbo arrecatogli. I briganti, superato "il chiarchiaro di li musci", trovarono ad attenderli alcuni compagni con una mula bardata sulla quale fecero montare il Caico e sparirono nella crescente oscurità in direzione della cascina Bellanova.
La notizia del sequestro mise in subbuglio tutto il paese. Cesare Caico, cugino del sequestrato ed il Dott. Paolino Guarino, cognato del sequestrato, mandarono subito persone armate ed a cavallo, per cercare di ritogliere il prigioniero; ma nella scura notte niente poterono fare.
La forza pubblica, setacciò tutto il territorio circostante, ma non trovò nulla.
Passarono alcuni giorni, quando una persona fidata dei briganti avvicinò segretamente il fratello del prigioniero, Giorgio Caico e gli riferì che quello si trovava in luogo sicuro, che stava bene e che mandava un biglietto alla famiglia, dove assicurava che era ben trattato e che mandassero trenta mila lire per il riscatto.
I Caico ed i Guarino affidarono le trattative del riscatto al maestro Calogero Infantolino, marito dell'amante del sequestrat. Dopo lunghe trattative i briganti si accontentarono di diciotto mila lire. Dietro tale consegna venne liberato il Caico, che tornò a casa la sera del 14 Luglio; dopo undici giorni di prigionia.
La nomea dei due briganti si allargò in tutta la provincia, dove ricatti, furti e rapine si susseguivano. Le forze dell'ordine si mossero numerose per stroncare la malvagia opera dei due malviventi. Fu in quel triste periodo che Montedoro ebbe una caserma di carabinieri, ed il locale scelto è stato adibito a caserma fino a qualche anno fà, in Via Diaz.
Nell'Autunno del 1874 i due briganti vennero accerchiati dalla forza pubblica, dentro una casa rurale, in territorio di San Cataldo. Ci fu un lungo conflitto a fuoco e i due disgraziati rimasero senza munizioni. Fu allora, che vistosi in procinto di cadere nelle mani della giustizia, Andrea Salvo disse al suo compagno: "finì pi nantri! Ammeci di arrenirini è miagliu ca n'ammazzammu!... Accussi nun dammu saziu a li sbirri". Gaetano Anzalone acconsentì, ma quando vide il Salvo, che si sparò, cadere a terra morto e pieno di sangue, non ebbe più il coraggio di ammazzarsi e fatti i segnali di resa si consegnò alla giustizia.
Con la morte del Salvo e la cattura di Anzalone, ebbe fine un triste periodo per il popolo montedorese, che ne risentì le conseguenze: con parecchie lievi condanne di presunti manutengoli e con l'assegnazione alla sorveglianza di molti altri.
Nel processo che si fece all'Anzalone nel 1875, il bandito accusò se stesso e il suo compagno di tutti i crimini che gli erano stati attribuiti, senza mai accusare alcuno di complicità in essi. Venne condannato a vita e morì vecchio nel penitenziario di Civitavecchia.
I parenti ed amici spesso abusarono della potenza dei due banditi. Colui che mai lo accettò fu il padre di Andrea Salvo, il buon Lorenzo di l'uagliu. Raccontava Calogero Buccoleri "Testa di Peddi", che nell'Estate del 1874, mentre aiutava il Lorenzo nei lavori in campagna, videro arrivare a cavallo, armati e ben vestiti, i due latitanti ed il Salvo avvicinatosi al padre gli disse: "Vossia benedica papà", e il padre gli disse: "Va consegnati a la giustizia! Accussi arriggiri a essiri ma figliu, picchì Lorenzo nun' avi figli briganti!". La repulsione del padre fu straordinaria e impugnato un tridente minacciò il figlio di colpirlo se non se ne fosse andato via. Anzalone trasse il compagno fuori dall'aja e poco dopo entrambi montarono a cavallo e si allontanarono.
(tratto da: Memorie e Tradizioni di Montedoro Vol.1: di Giovanni Petix; Ed. Amm. Comunale 1984)

Il brigantaggio in Sicilia.
Quanto segue è il frutto di una ricerca sul web ed è stato copiato integralmente dal sito dell'Arma dei Carabinieri. Crediamo però doverosa una correzione, infatti il vero nome di Anzalone non era Cataldo come riporta quest'articolo, ma bensì Gaetano.

Riceviamo da Caltanissetta uno schizzo interessante, accompagnato dal seguente racconto.
Da "L'Illustrazione Universale"
del 15 novembre 1874
L'11 ottobre, una pattuglia di carabinieri in perlustrazione s'imbatteva in Anzalone Cataldo e Salvo Andrea, noti capi briganti che con le loro criminose ed audaci azioni funestavano da parecchi mesi la parte occidentale di quella provincia, spargendo il terrore nelle popolazioni. Dall'una e dall'altra parte si scambiarono delle fucilate senza risultato di sorta, ed i due briganti ebbero l'agio di darsela a gambe abbandonando per via una cacciatora, uno scapolare e non poche cartucce.
Informato di questo incontro, il bravo brigadiere di Serradifalco chiamò a sé tre militi a cavallo, tre cavalleggeri e due carabinieri e con essi stabili il da farsi.
Al far del giorno 13 trovandosi essi nell'ex-feudo Giffarone, apprendono che Salvo ed Anzalone si trovano ricoverati nella casa campestre di certo Lumia Marco da Canicatti.
Defilati corrono alla volta del citato luogo, e quando vi sono giunti, chiamato il camparo, posto al servizio dei Lumia, gli impongono di far conoscere ai due briganti che la forza pubblica li attende fuori della casa in campo aperto.
Al triste annunzio risuonano minacce di esterminio agli agenti della pubblica sicurezza. Alle parole fanno succedere, i due malcapitati, una serie di fucilate, accanita e non interrotta; e i militi a cavallo, i carabinieri ed i cavalleggeri a rispondere a tempo e luogo.Il combattimento dura da quattro ore, quando si ode una voce da parte dei briganti che chiede una tregua: si tratta nientemeno che di resa.
Da un buco della casa vengono messe fuori le armi e poscia si apre la porta. Entrata la forza, trova estinto Andrea Salvo colpito da una palla alla tempia: l'Anzalone lo ha nascosto sotto un mucchio di paglia. La giumenta del Salvo ha incontrato la stessa sorte del padrone.
Anzalone fu tradotto in Caltanissetta. A vederlo non sembra che cuore così malvagio ed avido di sangue si annidi in lui. E' d'una statura bassa anzi che no, ha un volto che nulla esprime, è senza barba e conta appena 21 anno!
La sua carriera brigantesca non va oltre a un mese e pure in sì breve tempo commise varie grassazioni, tre sequestri di persona fra i quali quello del signor Caico da Montedoro, e più di una volta si macchiò le mani di sangue umano.

Il Brigante Rosario Bufalino.
Rosario Bufalino nacque a Montedoro il 19 Dicembre 1870. Apparteneva ad un casato che da più di un secolo si era trapiantato a Montedoro da Racalmuto; il padre Liborio era stato considerato tra i personaggi più rissosi della zona. Nell'ambiente in cui crebbe Rosario, gli atti di spavalderia e le uccisioni, erano all'ordine del giorno. Nel Maggio del 1887 Liborio Bufalino ebbe degli screzi con tale Rosario Sciandra suo genero; al rientro di Rosario, il padre raccontò quanto accaduto, allora il giovane, ancora minorenne, armatosi di pistola andò alla ricerca del cognato e lo attese nei pressi dell'abbeveratoio comunale, che allora si trovava dove sorse poi il vecchio Ufficio Postale. 
Il Brigante Rosario Bufalino 1870-1901
Arrivato all'abbeveratoio, Sciandra fù avvicinato dal cognato e colpito a bruciapelo da una pistolettata. Il giovane assassino scappò allora per le campagne, ma fu seguito e acciuffato da alcuni uomini che avevano assistito al fattaccio. Dopo essere stato catturato fù picchiato ed anche il fratello lo colpì con un sasso sconcertato per ciò cheRosario aveva fatto.
Consegnato alla forza pubblica fù incarcerato e rilasciato dopo 7 anni, fù poi arruolato per il servizio di leva. Tornato in famiglia tentò di fare il calzolaio, e proprio frequentando la bottega di Carmelo Randazzo conobbe la figlia Maria, e ne chiese la mano, ma Maria non era d'accordo ad accettarlo come marito. Rosario una sera presentandosi nella casa del Randazzo disse alla donna, senza tanti preamboli: "Maria, accetta di essiri ma muglieri, se no ti puartu via!...". I due si sposarono ed ebbero una bambina.
Nel Febbraio del 1901 Rosario insieme al cugino Gaetano e a Giuseppe Scimone, derubarono un povero ambulante canicattinese. Ma il derubato li denunciò e quando gli furono portati davanti i tre uomini li riconobbe. I tre vennero portati al carcere di Serradifalco, ma dopo pochi giorni Rosario riuscì a fuggire e a darsi alla macchia, Iniziò così una lunga serie di estorsioni a Montedoro e nei paesi vicini.
La sera del 16 Maggio 1901 l'Avv. Antonio Morreale veniva ferito in compagnia del suo cocchiere lungo la Scalinata Crispi, i due furono subito soccorsi, ma per l'Avv. non ci fù rimedio, una pallottola gli si conficcò nella spina dorsale rendendolo invalido e con dolori atroci per il resto dei suoi giorni.
Fu allora accusato di essere il mandante del tentato omicidio, l'allora Sindaco di montedoro Federico Caico. L'arresto del sindaco scosse la vita pubblica cittadina e persino gli avversari politici, gridarono all'errore! Dopo poco tempo il Caico fù rilasciato perchè si era fatta avanti un'altra tesi, si diceva infatti in giro che a sparare era stato Gaetano Bufalino, cugino di Rosario e col quale era stato visto armato a cavallo, si scopri poi che il vero autore della sparatoria era stato proprio Rosario.
L'ormai brigante Bufalino, maniaco di grandezza, per terrorizzare i suoi nemici, fece pervenire qualche sua lettera al Giornale di sicilia che Pubblico la prima il 2 Luglio e altre in seguito.
La caserma di Montedoro intanto era gremita di carabinieri, che avevano ricevuto l'ordine di pattugliare il territorio e di sparare al Bufalino non appena lo avessero avuto sotto tiro. Tanto che in quel tempo vivevano a Montedoro altri tre Rosario Bufalino, cugini del malvivente, i quali quando gli veniva chiesto il loro nome, ne tiravano fuori uno falso, per paura di ricevere qualche fucilata.
La mattina del 16 Settembre, alcuni montedoresi che si recavano a Serradifalco, in occasione della festa dell'Addolorata, assistettero all'assasinio di una guardia di contrada, certo Vincenzo Barbaria, ad opera del Bufalino. Il motivo che spinse Rosario Bufalino a compiere quest'omicidio, sta nel fatto che il Barbaria si vantava in giro di essere in grado di acciuffare il brigante non appene gli fosse capitato davanti; il Bufalino gli tese allora un agguato in contrada guarino ed invitandolo a consegnarlo alla giustizia lo freddò sul luogo.
La notte tra il 28 e il 29 Ottobre 1901, il Bufalino in compagnia di un certo Diego Lialsi, originario di Canicattì, fu sorpreso in un cascinale nell'ex feudo Crocefia. Avvisato del pericolo imminente e caricatosi il fucile, il Bufalino disse al suo compagno che lui sarebbe uscito fuori dalla finestra e avrebbe fatto fuoco sui carabinieri, allora il Licalsi approfittando della confusione sarebbe dovuto uscire fuori e aprire il fuoco anche lui. Il Bufalino allontanatosi allora dalla masseria apri il fuoco, i carabinieri individuato nell'oscurità il bagliore degli spari lo inseguirono, mentre il brigante superato il Fiume Gallodoro si inerpicava per le colline a Nord di Bompensiere. Il latitante stanco della fuga, raggiunto le colline alberate si sedette abbracciato al fucile, nel frattempo gli spari avevano richiamato le forze di Bompensiere, tra cui la guardia campestre Paolo Carrubba insieme al figlio Giosuè.
I due Carrubba sorpresero il bandito e Paolo lo invitò ad arrendersi, il Bufalino lo pregò di lasciarlo andare, ma durante il dialogo forse il latitante fece qualche mossa sospetta e probabilmente il giovane Giosuè preso alla sprovvista e sicuramente spaventato dalla presenza del bandito, lo freddò con un colpo alla testa.
Paolo Carrubba per paura di accreditare l'uccisione al figlio, si fece carico di tutto, ma le voci che ad uccidere il bandito fosse stato Giosuè, cominciarono a girare, fino ad arrivare alle orecchie della giustizia, che negarono al Carrubba padre qualunque riconoscimento onorifico, anche perchè si sarebbe preferito catturaRE VIVO IL BANDITO. per parecchi anni dopo questi fatti Giosuè si tenne lontano da Montedoro per paura della vendetta dei Bufalino.
(tratto da: Memorie e Tradizioni di Montedoro Vol.1: di Giovanni Petix; Ed. Amm. Comunale 1984)

Nessun commento:

Posta un commento